martedì 3 novembre 2015

Il poverello d'Assisi, semplice e umile cavaliere di Cristo. (Parte prima)

Dal dizionario Francescano.

Introduzione.

La voce cortesia traduce il latino curialitas. Prima del Millecento, questo termine significava pure l'incarico e i servizi dell'uomo impiegato alla corte dei re e dei signori. Le qualità dei nobili sono chiamate curiales in contrasto con i modi della gente rozza, villani e contadini. Però si trovano molti nobili con cuore villano e molti villani con cuore nobile. Lo afferma Filippo di Bergamo dicendo che la cortesia è come la nobiltà dei costumi. Che cosa, dunque, è cortesia? E come, e in qual senso Francesco fu uomo cortese  e santo cortese? In che senso la cortesia è propriamente virtù francescana?

1. TU SEI CORTESE

Il Celano racconta come Francesco volesse arruolarsi alle dipendenze di un cavaliere di Assisi:"Gli era inferiore per nobiltà di natali, ma superiore per grandezza d'animo; meno ricco, ma più generoso(1 Cel 4:325). D'altra parte, i Tre Compagni sottolineano le qualità di Francesco, quando egli diceva di se stesso: " Tu sei generoso e cortese..."(3 Comp 3: 1397). In due fonti, scritte in diverse epoche, troviamo dunque la parola cortese accostata per due volte a generoso. Ciò significa che nel concetto di cortesia, si privilegiava quello di generosità, e sarebbe questo l'aspetto della cortesia sottolineato dai bibliografi. Rifacendoci alla storia del termine, sarà più facile evidenziare il contenuto di cortesia e mostrare come Francesco ne assunse il significato essenziale. La storia della cortesia è legata a a quella della cavalleria. Ora, la cavalleria, così come la conosciamo, ebbe origine nelle regioni pagane della Sassonia. La Chiesa, fedele al suo proposito di salvare tutti i valori autenticamente umani cristianizzandoli, con grande pazienza riuscì a trasformare la soldatesca bellicosa in una elitè pacifica a servizio delle vedove e degli orfani. Ma nell'ingentilire i costumi marziali della cavalleria, comparve una conseguenza inattesa: il castello cessa di essere una fortezza dove si prepara la guerra, per divenire centro d'incontro e dimora ospitale. I cavalieri si fanno visita e invitano gli amici a feste e tornei. La donna, oggetto di piacere per il riposo dei guerrieri, acquista il prestigio della castellana: onore del suo signore, ammirazione di coloro che hanno il privilegio di essere suoi ospiti.
Le regole della cortesia, fatte per l'uomo di guerra, vengono così trasferite dal signore alla sua donna, e a poco a poco, fiorisce l'amore cortese. Il re Giovanni di Brienne scrive nel Discordo: "L'essere cortese e valente/e leale servitore/inver la sua donna piangente/Chui ama a tutore".
E i trovatori, nelle corti d'amore, inventano le nuove regole della cortesia, ordinate secondo nove qualità: l'accoglienza, la lealtà, la compassione, la dolcezza, la liberalità, la letizia, la discrezione,l'onore, l'amore. Questa ispirazione cavalleresca della cortesia ha conosciuto alla fine del Millecento una trasformazione religiosa nella quale la Vergine Maria prende il posto della donna mondana.
Bonvesin da Riva ne è testimone nella ballata dell'esilio:"Vergen sor tute le vergene soprana per bettae,/Magistra de cortesia e de grand humilitae".     




                                                                                                                  

lunedì 26 ottobre 2015

Madonna di Fileremo, Vergine di tutte le Grazie.

Simbolo della spiritualità mariana dei Cavalieri Templari.






Giudicati sull'amore (dal libro di Maria dell'orto, monaca di Bose, titolo:"La follia del Vangelo")

Meditazioni sul Vangelo secondo MT 25,31-46

Nella celebre profezia di Ezechiele il Signore, dopo aver giudicato quei pastori del gregge di Israele che hanno pascolato solo se stessi, chiama in giudizio tutte le pecore, perchè nonostante la grave responsabilità verso il prossimo, il Signore la riconosce e dunque la esige da ogni essere umano, da ognuno secondo le proprie forze. E dell'amore del prossimo come di un tutt'uno con l'amore per il Signore parla questo Vangelo, che è l'ultima predicazione di Gesù ai suoi discepoli prima della sua Passione. E che perciò assume un'importanza speciale. Ai suoi discepoli, a coloro che per amor suo vogliono seguirlo per vivere in comunione con lui, ascoltandolo e praticando la sua parola, Gesù proclama solennemente come devono servirlo nel lungo tempo della storia, nell'attesa del suo ritorno.
Nella parabola il figlio dell'uomo, convoca l'umanità intera risvegliata dalla morte, giudica ognuno in base all'amore soccorrevole prestato, o  negato, al prossimo bisognoso, misero e derelitto. Non saremo giudicati su null'altro: non sulla fede, non sulla speranza, tanto meno sull'appartenenza religiosa. Ma solo sull'unico e molteplice frutto è ordinata tutta la rivelazione e la pratica evangelica: sull'amore del nostro prossimo, soprattutto nel bisogno. E il bisogno che affligge la povertà così come l'amore che lo soccorre è narrato in modo preciso e concreto, e viene costantemente ripetuto nel testo con insistenza martellante, a indicare che agli occhi di Dio questa è la cosa seria della storia e del mondo: la fame dell'affamato, la sete dell'assetato, la multiforme povertà e umiliazione dello straniero, il freddo e la vergogna di chi è nudo, l'isolamento derelitto del malato e del carcerato.
In tutta la Scrittura questa miseria dolorosa è il grido incessante che il Signore ode salire dalla terra, fin dal tempo di Abele. Per questo grido era sceso una prima volta a Sodoma e Gomorra, dove l'ospitalità veniva tradita e gli stranieri usati; e poi nella pienezza del tempo, ci ha visitati diventando lui stesso umano nell'uomo, Gesù esposto al patire come tutti noi. Il Vangelo ci mostra Gesù come giudice proprio perchè è l'incarnazione del Dio Compassionevole e tre volte Santo, perchè è il Servo del Signore che patisce e porta su di se, come suo proprio strazio la tribolazione e piaga, il dolore di tutti gli esseri umani sofferenti, fino al punto da identificarsi con loro. Ci è rivelata qui la piena coincidenza della storia, tra il corpo umiliato del povero e quello del Signore e il volto dei poveri; essi sono le vere membra del suo corpo. Ed è così che Gesù rende per sempre i poveri e gli ultimi la presenza più preziosa ma anche più esigente per i discepoli , la loro occasione quotidiana per servirlo e per aver parte con lui in questo mondo e in quello futuro. Ma anche l'atteggiamento verso i poveri, verso ogni prossimo in condizioni di debolezza diventa il criterio di per discernere in noi stessi e nella chiesa e nel mondo ogni progetto e gesto di empietà, perchè l'empietà ha sempre, come cuore e frutto, l'indifferenza e l'odio per i più deboli, i poveri, gli stranieri e gli ultimi.Dunque il diritto del Signore nostro Dio, che come credenti vogliamo riconoscere e onorare, coincide con il diritto del nostro prossimo nel bisogno, perchè è il Signore stesso che esige nella persona dei poveri il nostro soccorso, la nostra condivisione dio ciò che abbiamo e siamo. Chi umilia e ignora un povero , umilia e ignora il Signore.
Qui nel grande giudizio , il Signore da la propria voce al bisogno dei poveri di tutta la storia e svela, proclamandola alta e forte, la benedizione di chi lo ha soccorso e la maledizione di chi non lo ha soccorso. Fa impressione che qui nemmeno siano nominate le violenze e le angherie, che la Scrittura peraltro ben conosce, che noi umani sappiamo infliggere ai nostri fratelli più poveri e più piccoli: qui infatti basta l'omissione di soccorso per essere rivelati malvagi e del tutto stranei al Signore. In quel giorno nessuno dirà la povertà che ha patito, ciò che è  stato il suo bisogno tormentoso : perchè di tutto questo dolore si farà voce il Signore e il Signore soltanto , rivelando come suo proprio dolore. Ma ognuno sarà giudicato sull'attenzione e sulla cura, offerta o negata, al bisogno doloroso del suo prossimo, alla fame,alla sete,alla nudità e alla vergogna,all'isolamento e all'umiliazione,all'afflizione patite dal suo prossimo. Sembra una sorta di riedizione della beatitudine ai poveri e agli afflitti, in cui però la beatitudine è proclamata non alla propria afflizione ma al soccorso dato all'afflizione altrui. Perchè non il nostro dolore ci salva, ma l'amore. I bisognosi dolorosi che abbiamo patito o patiamo possono e devono darci l'intelligenza e la compassione dei bisognosi e dei dolori altrui. Come a Israele dolorosamente esperto di stranierità e di schiavitù in Egitto è sempre richiesto dal Signore di amare lo straniero, di dargli pane e vestito, ricordandosi della propria stranierità e derelizione. Così è chiesto a ciascuno di noi. In fondo, le nostre afflizioni e dolori hanno un solo modo di non disumanizzarci: quello di renderci capaci di compatire con tutta la nostra umanità le necessità altrui e di prendercene cura, secondo le nostre forze. Il Vangelo, che sempre ci insegna a non temere per la nostra vita nè miseria nè tribolazione e neppure la morte, perchè nulla di ciò che patiamo può separarci dall'amore di Cristo, qui ci insegna anche qual'è l'unica e multiforme cosa che ci separa, oggi e per sempre, dall'amore di Cristo: ed è il non curarci del bisogno e del dolore del nostro prossimo. Ricordiamo l'ammonimento di Ignazio di Antiochia: "é molto meglio essere cristiani senza dirlo, che dirlo senza esserlo."